Krueger
i ruggiti dell'anima
Krueger
i ruggiti dell'anima
6 - Il percorso del carro verso l'abisso
Organizzava le vendite per una piccola casa editrice; cataloghi d'arte, riviste, qualche libro; a lui toccava il compito di organizzare il lavoro dei venditori inviati sul territorio da possibili clienti che venivano invogliati con un piccolo regalo o con la promessa di sconti fantastici su opere d'arte eccelse.
Viveva il lavoro come una missione; raddrizzare la schiena a ragazzotti al primo impiego per farli diventari 'squali delle vendite' non era solo un suo modo di dire e un compito lavorativo; per lui era anche un modo di instradare giovani impaurite vite verso un avvenire più solido e definito, facendo capire loro le leggi del mercato del mondo in cui si vive, insegnando loro la vera arte della persuasione al fine di ottenere la firma su un contratto; firma che avrebbe sì dato un benessere economico al venditore, ma anche l'orgoglio di avere raggiunto un traguardo personale, convinto una persona, aver dimostrato di essere superiore, di aver vinto le resistenze e di essersi imposto sull'altro.
Una vera soddisfazione, il motore che spinge ogni venditore ad uscire ogni giorno nella giungla del mercato e tornare la sera con le prede tra i denti; per Alviero Destefani motivare questi ragazzotti era un modo per sentirsi forte e potente. La sera quando li vedeva arrivare stremati, ma con un sorriso rapace di soddisfazione per aver ottenuto qualche contratto, dopo aver stretto loro la mano e averli congedati con l'assegno si sentiva ebbro, soddisfatto, al posto giusto nel mondo.
In quelle sere, alle volte, chiusa la porta dell'ufficio in modo che la segretaria non potesse vedere, si toglieva la giacca e la camicia e accarezzava il tatuaggio della X mas sulla spalla; si sentiva addestratore di uomini, vero conduttore e motivatore di legioni di venditori. Quando le cose andavano particolarmente bene, poi, beveva anche un goccio dalla bottiglia in fondo all'armadio dei dossier; un whisky da intenditori che aveva barattato, a suo - gran - vantaggio con una provvigione per un venditore, ne assaporava qualche goccia guardando via Cernaia dall'alto, lì sulla sedia accando alla finestra, con il suo tatuaggio in bella vista, ad assaporare le note sottili di torba, di salmastro e di tabacco che salivano prima nel naso e poi, attraverso la lingua ed il palato, si diffondevano in tutto il suo mondo, inebriandolo, lasciandogli perdere un poco il controllo dei pensieri.
Voleva e temeva questo momento di salivare consapevolezza; tanto era l'attesa, la corsa, l'aspettativa, il fremito per arrivarci quanto era forte la certezza che di lì si sarebbe aperto un abisso sotto i piedi; prima qualche piccolo dubbio, poi altri più forti, lo rendevano instabile delle proprie certezze, lo facevano diventare un po' più debole, un po' più aperto verso l'ammissione che sì, forse, altri modi di vivere erano possibili, meno spietati, meno furenti, più dolci.
Ecco, questo: questo era il pensiero che, infine, non sopportava. Essere messo in crisi così, proprio quando era arrivato al massimo della soddisfazione, essere piegato dal dubbio. Che rabbia... insopportabile.
Ed era proprio in un momento come questo che le aveva telefonato la prima volta, trovando il numero su internet.
Ed era proprio qualche sera fa che l'aveva chiamata, e tra poco sarebbe arrivata lì, in ufficio, come succedeva da qualche tempo.
Ma non era il giorno giusto per riceverla; quel mattino aveva già visto quattro dei suoi venditori, ed era infuriato.
Innanzitutto un venditore non dovrebbe venire a parlare con lui al mattino; vuol dire che non è in giro a lavorare. Secondo, se arriva a quell'ora è perchè vuole lamentarsi, dire che non riesce a vendere o chiedere un aumento, o dire che si licenzia o che è malato o chissà cos'altro; e proprio tutte queste cose erano successe quel mattino.
La segretaria aveva visto passare davanti alla scrivania, uscendo dall'ufficio, volti di ragazzi arrossati e vergognosi, alcuni chiaramente venuti alle lacrime. Aveva sentito gli urli rabbiosi del capo, indossato le cuffie per sentire un po' di musica come faceva di solito per non rimanerne turbata. Aveva cercato di consolare un po' quei ragazzi, confidando con loro nella prossima settimana, nel prossimo mese.
Poi tornava ad excel, ai conti e alle provvigioni e alle fatture, annegando nell'esattezza dei conti i dispiaceri che le ruotavano intorno, lasciando sfuriare il capo, sperando sempre che il prossimo ragazzo gli avrebbe dato soddisfazioni e tranquillità, uscendo dall'ufficio con un sorriso. E un assegno.
Ma quella mattina non era ancora successo.
Per fortuna l'aria era fresca; la primavera inoltrata nel mezzogiorno inondava calori inconsueti, ma le prime ore continuavano ad essere leggere e frizzanti.
Per questo quella che era ormai quasi una uniforme, il suo tailleur di pelle nero con sopra una mantella chiara di panno, non le procurava fastidio ma solo la piacevole senzazione di essere avvolta, fasciata, calda e seducente; i tacchi non troppo alti a spillo, le punte affusolate delle scarpe facevano il resto.
Ammirò quanto le scarpe fossero lucide, cercò di ricordare come lo fossero diventate.
Il pensiero chissà perchè andò a quello strano falso prete, a tutti quegli strani discorsi che le aveva fatto.
"Devo pensarci con calma", si disse, "sembra conoscere cose che potrebbero essere importanti per la mia vita, per il mio lavoro."
Giusto il tempo di gustarsi un caffè con il vizio di un piccolo pasticcino al bar sull'angolo della Piazza delle Erbe, che dopo sui tacchi svettava in via Conte Verde attraversando via Garibaldi, giusto in orario per l'appuntamento in piazza Solferino, nell'alto palazzo all'angolo con via Pietro Micca.
Le piaceva molto essere in orario; su questo, non ammetteva deroghe ai suoi clienti nè a sè stessa.
La fortuna dei palazzi che ancora possiedono una portineria sta nella qualità dietro al gabbiotto; in questo caso una donna dai lineamenti leggermente asiatici la riconobbe, annuì con un sorriso e le aprì la porta prima che potesse suonare il campanello; contemporaneamente le chiamò l'ascensore in modo che si aprissero le porte appena dopo il suo ingresso.
Le due donne si guardarono, si sorrisero, entrambe stettero in silenzio convinte della superficialità che a volte i convenevoli possono avere. Entrambe invidiavano qualcosa dell'altra, entrambe ne avevano rispetto; mentre si chiudevano le porte dell'ascensore si raccontarono vite tra i loro sguardi, si promisero intimità e chiacchiere che forse mai sarebbero state raggiunte.
Arrivata al piano, la porta dell'ufficio era socchiusa; capì che dalla portineria avevano avvisato del suo arrivo, entrò, salutò e sorrise alla segretaria. Chiese di poter passare in toilette, come di consueto, lei rispose "subito qui a destra", come rispondeva di solito; quando uscì dal bagno, pochi secondi, forse un minuto, dopo quella donna le sembrava più forte, più altera.
Non sapeva bene perchè ogni volta passasse in toilette, ma ultimamente si era accorta che era più alta; probabilmente si cambiava le scarpe con tacchi più alti, ma lei da dietro il bancone dell'accoglienza non se la sentiva di alzarsi a guardare.
Brava ragazza, un po' timida, pensò uscendo dalla toilette e si avviò a passo sicuro verso la porta con a fianco la targhetta 'Alviero Destefani - Direttore Commerciale'.
Ma si fermò immediatamente.
Questa volta, diversamente da tutte le altre precedenti - una decina, circa - la porta era chiusa, e dall'interno provenivano urla rabbiose.
Guardò la segretaria, che rispose con uno sguardo di scuse, arrossendo un poco.
Sentiva anche provenire dall'ufficio la voce di una ragazza, una specie di piagniucolìo, un lamento, che accampava scuse per le poche vendite; ma ogni volta che il lamento iniziava prima di terminare veniva sommerso dalla voce del direttore, prima quasi in sordina poi in un crescendo che finiva in urla.
Proprio dopo uno di questi urli la porta si aprì, ne uscì una ragazza con un pastrano verde e i jeans, rossa in viso di pianto. La ragazza la guardò e si vergognò; cercò uno sguardo amico nella segretaria, lo incontrò e ci si rifugiò per un poco. Li conosceva uno ad uno, la segretaria, li chiamava 'stelline' quando le telefonavano, e anche questa volta le disse 'oh, stellina, santo cielo... non disperarti, passerà'.
E la tenne vicino per qualche chiacchiera di consolazione, ma prima all'interfono chiamò il direttore per dirle 'dottor Destefani, c'è la signora'. Stava ancora tenendo pigiato il tasto che teneva aperta la conversazione quando si sentì la risposta che la segretaria cercò subito di interrompere e di mascherare con un "la sta aspettando."
La risposta era stata "anche le troie adesso vengono a rompere i coglioni."
Lei entrò e appoggiò la mantella; lui era di spalle, la testa con la calvizie ormai non mascherabile dimostrava con il colore quanto l'accesso di rabbia non fosse ancora scemato.
Senza voltarsi operando al computer le disse un po' spazientito e quasi urlando 2Ora arrivo, ora arrivo!"
Lei aveva fatto pochi passi nell'ufficio, ticchetando con i tacchi sottili sul palchetto antico.
Letteralmente, girò i tacchi, facendo ruotare il corpo intorno alla gamba di appoggio; il cuoio della scarpa sfregando nella rotazione produsse un sottile curioso rumore sul palchetto di legno.
Lui lo sentì distintamente e capì cosa stava avvenendo senza doversi girare.
L'ultima cosa che lei vide prima di voltarsi completamente fu la sua testa avvampare di un viola acceso.
Lui sentì il ticchettio deciso dei tacchi che si avviavano all'uscita, e prima che capitasse l'irreparabile corse verso di lei facendo cadere la sedia e la raggiunse esattamente mentre lei appoggiava le dita avvolte dai guanti sottili sulla maniglia; le prese l'altra mano guantata e la trattenne. Nella corsa per raggiungerla era finito praticamente in ginocchio, quasi nella posizione di una genuflessione di fronte a lei.
Lui disse solo "no, ti prego."
Lei ritrasse la mano.
Ritrasse anche quella dalla maniglia.
Lentamente, guardandolo, giudicò il da farsi.
Lui, muto, in ginocchio davanti a lei altera; gli occhi alzati nella speranza di un cenno positivo.
Sempre lentamente lei si sfilò i guanti tenendoli entrambi in una mano; guanti lunghi, a metà braccio, sottili e morbidi, di una tinta appena più scura della mantella.
Incrociò le braccia, guardandolo dall'alto in basso; lui sentì il leggero croccare dell'abito mentre le braccia si sovrapponevano.
Improvvisamente lasciò andare la mano che teneva saldi i guanti, schiaffieggiandolo violentemente sulla bocca; la pelle morbida lasciò la cute intorno alle labbra rossa e in qualche modo un piccolo rivolo di sangue apparse su un labbro.
In quel momento, guardandolo negli occhi, capì; ma il pensiero era troppo grande per essere analizzato subito.
Così si lasciò andare a pensieri più terreni e normali, demandando a dopo l'illuminazione che aveva ricevuto.
Primo: - non si lasciano segni sui clienti.
Secondo - uno che fa piangere così una ragazzina non deve passarla liscia.
Terzo - sono qui per lavorare, non sono la vendicatrice del mondo.
Rasserenata per aver ripreso terra, tornò al pensiero principale e al motivo che l'aveva scatenato: i suoi occhi, il modo con cui quell'uomo l'aveva guardava dopo lo schiaffo con i guanti sulla bocca.
Non c'era lussuria, non c'era passione, non c'era desiderio; solo un'estrema, infinita gratitudine, una infinita dipendenza da lei che l'aveva portato in uno stato di grazia, in una posizione dell'anima in cui si trovava molto bene; c'era arrivato per merito suo.
Lo stesso sguardo; lo stesso, identico sguardo del falso prete, di quel padre Krueger che aveva visto quel pomeriggio in Duomo, mentre guardava il san Giovanni della copia dell'ultima cena di Leonardo.
La stessa infinita gratitudine; nelle lunghe, a suo modo dolci e intriganti chiacchierate il prete aveva chiamato questa condizione la 'nostalgia del paradiso' verso la quale qualunque essere umano naviga più o meno consapevolmente, il ritorno all'origine, il vero motore di ogni passione e di ogni desiderio.
Lui era ancora lì con i suoi occhi troppo chiari a guardarla con quello sguardo beato.
In qualche modo lei si sentì onnipotente su quell'uomo; poteva farne ciò che voleva in quell'istante, chiedere qualsiasi cosa; era facoltoso, poteva sfruttare la situazione.
Ma in quel momento tutto quello che lei voleva era riportarlo in quella condizione beata, sperimentare la sua capacità di rendere felici le persone; se lo disse con una specie di caparbietà, con la consapevolezza di essere una professionista del suo settore e con quel sorriso che le era spuntato da quando, dopo i discorsi col falso prete, aveva cominciato a pensare a se stessa non negativamente ma, anzi, come persona in grado di portare gli altri in una condizione di gioia non temporanea, ma in grado di cambiare i percorsi di vita.
Decise di proseguire.
Disse solo "nudo."
Lui capì che non se ne sarebbe andata e ne fu felice; si rilassò e il più in fretta possibile si spogliò, completamente nudo.
Non voleva ricevere il benchè minimo rimprovero, non indugiò se tenere calze canottiera o mutande: si mise nudo, completamente.
Non sapeva in che posizione stare. Era più alto di lei, anche chinando il capo, e capiva che non sarebbe stata cosa giusta essere più in alto; quindi si rimise in ginocchio.
Lei lo guardò e accennò con un piccolo sorriso di aver gradito il gesto; di quel sorriso lui le fu immensamente grato.
Con un piccolo gesto delle spalle, quasi un fremito, fece cadere la giacca del tailleur che, quand'era nella toilette, aveva indossato solo sulle spalle; cadde dietro di sè, rivelando che la gonna era in realtà un abito con un corpetto di pelle che le cingeva e modellava la vita e il seno.
Immobile, con un gesto degli occhi gli indicò il pavimento; lui si stese sul palchetto, pancia a terra.
Lei stese l'indice e il medio in avanti e capovolgendo la mano gli fece il gesto di girarsi pancia all'aria.
Prese la sedia con le rotelle; la fece scivolare fino al suo fianco, all'altezza delle ginocchia, e si sedette alla sua destra a guardarlo.
Lo guardava a partire dalle ginocchia e ad arrivare alla testa; lei seduta e rivolta verso il suo viso, lui disteso e con gli occhi abbandonati verso l'alto.
Con il piede cominciò a massaggiargli le cosce; la scarpa scorreva dolce, solo il tacco sottile lasciava piccoli innocui graffietti bianchi sulla pelle.
Infilò una scarpa sotto il ginocchio e gli fece piegare entrambe le ginocchia.
Lui era comodo e rilassato in quella posizione, con quella donna bellissima davanti che lo stava delicatamente solleticando; il calore era passato tutto dalla testa, ora fresca, al basso ventre e in mezzo alle gambe, zona che ora rifioriva del sangue che abbondantemente la irrorava gonfiando i tessuti nel turgore dell'abbondanza.
Con il cuoio della suola, prima quasi per caso poi più approfonditamente solleticò e massaggiò quei turgori; la punta affusolata di pelle si infilava negli antri nascosti, sotto il suo piede sentiva pulsare la vita, gli occhi di quell'uomo si stavano perdendo in qualche beatitudine.
Continuando, con il piede sinistro, a mantenere una pressione che provocava ancora una maggiore pulsazione, con il tacco della scarpa destra intraprese un viaggio a percorrere il perineo.
Durò forse un minuto o qualcosa di più, quel viaggio; a partire dalla radice percorse, premendo poco e appena graffiando la pelle, quei pochi interminabili centimetri che la dividono dall'abisso, arrivando poi con il tacco sull'orlo ed indugiando, premendo poco come se il viaggio dovesse proseguire a profondità incontrollabili.
L'uomo aveva quasi perso il senso del tempo e dello spazio; stava vivendo un'esperienza dai contorni non più definibili, incapace sia di mettere un freno che a chiedere di più.
Il tacco, dopo aver indugiato a lungo con leggerissime pressioni quasi insopportabili dalle fitte di sensazioni che provocavano, intraprese la strada del ritorno, ripercorrendo il tratto dell'andata; ritornato alla radice la punta della scarpa si abbassò a raggiungere la stessa zona su cui insisteva la sinistra; nello stesso momento in cui lei appoggiò il cuoio sull'epidermide sottile e sensibile percorsa dalle venature pulsanti una serie di sussulti scosse l'uomo e provocò in lei il sorriso di soddisfazione che sempre e inspiegabilmente la raggiungeva in questi casi.
Piano ritrasse i piedi dal corpo dell'uomo.
Lo guardò, lì immobile, con il suo sorriso felice.
Si guardò le scarpe; neanche una goccia. Benissimo.
Le rimise nella borsa, indossò quelle con cui era arrivata.
Non salutò, aprì la porta e uscì.
La segretaria, questa volta, non aveva sentito urla. Non aveva sentito quasi nulla.
Però vedendo quella donna uscire con un'aria così fiera e serena, un po' la invidiò e si scambiarono uno sguardo, un saluto ed un sorriso; lei uscì, prese l'ascensore e se ne andò.
La segretaria pensò due cose: primo, quel tipo di sguardo d'intesa mi sembra di averlo già visto da qualche parte; a ben pensarci sembra quello della portinaia.
Secondo, quand'è uscita, sembrava di nuovo poco più bassa.
Strano.
(scritti precedenti: vedi album Kruegg )
[ particolare di carro agricolo, complesso abbaziale del Polirone, San Benedetto Po ]
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