3 - L'abisso
Andare verso il duomo, verso il Giano in basso a destra: ormai quasi un rito.
Prima di incontrare la ragazza, era arrivato alla piazza del Duomo nello stesso modo che ormai ripeteva da tempo; si avvicinava, quasi con rabbia, a passi veloci, quasi correndo, a quel Giano così spudoratamente mostrato.
Già dalla Piazza delle Erbe, davanti al municipio, il pensiero cominciava ad andare ai marmi; voltava dalla piazzetta del Miracolo di Torino - piazza Corpus Domini - in via porta Palatina, poi in piazzetta IV marzo, camminava veloce nello spiazzo dolce di tigli a fianco dei tavolini, dei passanti, degli alberi, e già aveva lo sguardo fisso ai marmi bianchi, alle forme dolci del duomo nuovo.
L'occhio agganciato come da un filo d'acciaio ai marmi, procedeva come un automa, scartando persone o auto che si mettessero tra lui e le pietre e ad ogni metro, ad ogni passo, crescevano le domande; ogni giorno passato invece di chiarirle le rendeva più importanti e spingeva le risposte più lontano; era diventato un vortice, una dipendenza.
Ancora qualche passo, sempre più veloce.
Su per le scale, quasi di corsa.
E poi lì di fronte a lui a ripetere quel gesto: la mano su Giano, a coprire con il palmo gli occhi dei due volti; il pollice sul viso di sinistra le altre dita a coprire quello di destra. Da sempre sentiva che quello era il modo di guidare quell'astronave di marmo, di averne il controllo.
Il contatto con la pietra gli dava, finalmente, sollievo; non aveva la soluzione, ma sentiva di farne parte.
Riposo.
Non erano tutti i marmi della facciata ad attrarlo; di molti sapeva più o meno tutto.
Il mistero restava sui fregi esterni delle due porte laterali; quelli erano un rebus, studiato più volte.
Quante volte aveva cercato un indizio, un nome, un volto, qualcosa di umano che lo riconducesse all'intelligenza che aveva tracciato quei segni.
Aveva ormai passato la fase in cui pensava che quei marmi fossero l'oggetto del suo studio; gli era ormai chiaro che i marmi lo stavano studiando, era lui l'oggetto della loro attenzione.
Lo stavano cambiando in modo da farlo diventare lui stesso soluzione dell'enigma; loro ponevano la domanda a cui il suo essere vivo era risposta. Stava impazzendo di domande, stava dissolvendo la sua mente in quel mistero che prometteva di ricostruirla a nuova vita, che gli sussurrava lasciati andare, dissolviti, impazzisci; più lo farai e più potrai sapere, più potrai avere.
"E' solo dal tuo dissolvimento" - pensava - "che troverai la chiave, il mercurio filosofico, l'acqua permanens, l'agente per ricostruirti; e non ti sarà facile".
Alcuni visi scolpiti esprimevano lo spaventoso orrore a cui si dà in pasto chi li interroga; ma è dal buio del dissolvimento della propria mente che si può superare lo stato ed innalzarsi a nuova vita.
Un viso in particolare lo atterriva; era sul portale di sinistra ed esprimeva un terrore disperato ed ininnominabile; gli ricordava qualcosa, aveva una certa potenza su di lui, come se appartenesse al suo passato o, forse, al suo futuro; in ogni caso lo sentiva collegato con sè stesso per motivi ignoti. Percepiva che l'affondare in quell'orrore era un passo necessario per arrivare alla felicità che gli corrisponde.
Solve et coagula, il motto dell'alchimia.
L'albero della conoscenza del bene e del male.
Gli estremi che si toccano, la coniunctio oppositorum, le nozze chimiche, l'enantiodromia.
A volte semplicemente pensava che tutto ciò non fosse sopportabile e, quindi, non andava sopportato; trovava modi per distrarsi e per non pensarci, a volte anche per lunghi periodi.
Ma la vita obbliga a pensare; le cose accadono, e ci si chiede il motivo; ed ogni volta che il pensiero cadeva sulle domande importanti, i marmi tornavano e l'abisso ricominciava a prendere forma.
Che fosse questa la nigredo, l'opera al nero, la prima fase dell'opus alchemica? Questo macerarsi, questo piombo così scuro? Questo rimestare nel basso fango delle domande irrisolte e pesanti picchiandosi con la logica, la forza di Saturno, pianeta del piombo, quella forza che obbliga al confronto con la realtà, alla durezza dei nodi che sempre tornano al pettine? Aveva letto di questa fase e di quanto dura: a volte la vita intera. Quando guardava allo specchio i tratti del proprio volto si chiedeva quanto ci avesse lavorato sopra Saturno e concludeva che sì, ci aveva lavorato parecchio.
E, santo cielo, quanto ci sapeva fare.
I marmi lo provocavano, quasi sfrontatamente: vediamo quanto coraggio hai, quanto sai lasciarti andare, quanto sai perdere ragione, quanto sai fidarti.
Ne immaginava le parole: "Vediamo, prete, o qualsiasi essere tu sia, qual è la tua fede; vediamo quant'è in grado di sostenerti."
Per quella che era la sua esperienza la sensazione era molto simile all'uso di droghe, con la differenza che il lasciarsi andare ai marmi implicava un cambiamento duraturo; l'effetto non passava, semplicemente lo cambiava. Non sapeva dire se in meglio o in peggio; lo scavava di più, lo costringeva ad ammettere ciò che prima era inammissibile perdendo la protezione delle proprie conoscenze ed avendone in premio di nuove. Era come vivere senza pelle, eccessivamente sensibile ad ogni piccolo evento esterno.
Ricordava la prima volta in cui successe: poco lontano da lì ed in un'altra chiesa, la Consolata.
C'era, nella sacrestia, luogo pieno di demoni, un fonte battesimale con avvolto un diavolo alla base; curioso, pensò la prima volta che la vide.
Strano, pensò la seconda.
La terza volta, la bestia lo morse; o meglio lo costrinse per un attimo a vivere senza pelle. La sensazione era esattamente quella descritta da alcuni dei volti scolpiti nei marmi del duomo.
Il battistero e il diavolo; che ci può essere di più distante? Eppure lui restò nudo a contemplare la danza di questi amanti, accecato da tanto bagliore, sconvolto dalla forza che li respinge e li lega, annullandosi in essa.
Gli tornò in mente il rituale della 'benedictio fontis' con la preghiera di separazione dei sessi e dei tempi per rinascere d'una infanzia nuova.
Uscito dalla Consolata, seduto ai tavolini dei locali di fronte, ripensando a quanto aveva vissuto e ai pensieri più bui, scrisse su un tovagliolo:
Dentro di te
nel tuo santuario
s'aggirano pensieri segreti
Li hai conosciuti, li hai vinti, la luce splende fuori e intorno a te
ma nelle scure stanze, tra i marmi delle sacrestie del cuore
proprio attorno al fonte battesimale,
cuore dei tuoi giorni,
sole del tuo sorriso,
attorciglia la coda lucida e bellissima
la bestia
Alzi gli occhi a fuggir paure,
cerchi un angelo che ti difenda
hai pregato, l'hai cercato, l'hai voluto
oggi che è qui con te
un po' ti stupisci
di vederlo
con torbidi occhi d'amante
danzare
con la bestia meravigliata
nel vortice
si sovrappongono
non sai più chi sei
non sai più chi vuoi
perdi ragione
diventi
danza.
Diventi danza.
Allora non immaginava perchè l'avesse scritto, ora lo sapeva. Di fronte all'unione degli opposti ci si annulla in loro, si diventa danza, ed era quello che i marmi chiedevano: annullati in noi, diventa la nostra danza.
Schiarazula Marazula, la vecchia storiella, "il giro di una danza e poi un'altra ancora e tu del tempo non sei più signora", una danza in cui anche la morte è compagna di ballo; va tenuta in considerazione.
Ancora una volta le spirali torbide di pensieri: il maschio e la femmina, l'androgino, gli opposti scatenati, secondo religione, dal Maligno. Lo sentiva sussurrargli di avvicinarsi, di assaggiare il frutto della conoscenza del bene e del male, la prima di tutte le divisioni, la madre di tutto l'esistente.
Sentiva forte la necessità di tornare ad un stadio primordiale, prima delle divisioni; fu quasi automatico tornarre davanti al Duomo perchè, pensava, se c'è una risposta è lì.
Testa china.
Mano su Giano, a guidare il duomo.
I polpastrelli a sfiorare la pietra ruvida,la mente a interrogare.
Pietra di Chianocco, pensava, ha attraversato la Dora su barconi per arrivare qui; in quegli anni di fine secolo, una decina d'anni prima dello scoccare del 1500, s'era aspettata la primavera perchè ci fosse abbastanza portata d'acqua, s'era costruita una zattera apposta e due vie laterali perchè i cavalli potessero trainare o frenare la zattera.
Alzò gli occhi, incontrò la propria mano a coprire Giano; e appena sotto vide il vaso che inizia la candelora, guardò le decorazioni del calice ed esclamò sorpreso sottovoce.. Sandrino!
Sandrino di Giovanni faceva parte dei maestri comacini. La storia si perde dietro questa denominazione; si può risalire ai primi secoli dopo Cristo, intrecciare la loro storia con i templari e i massoni, fatto sta che i maestri comacini hanno costruito la storia dell'arte; le più grandi cattedrali d'Europa sono uscite dai loro scalpelli. Probabilmente c'era anche Sandrino nel gruppo degli otto scalpellini che a Roma avevano ricevuto l'incarico di andare a Torino per occuparsi dei marmi del duomo nuovo e, in seguito, scolpirne alcuni. Avevano ricevuto l'incarico direttamente dal cardinale della Rovere che era consigliere personale di papa Sisto IV e che collaborava attivamente alla costruzione dei palazzi della Roma rinascimentale.
Avevano avuto in affitto una mula, con spese di mantenimento puntualmente rendicontate, e avevano fatto il viaggio da Roma a Torino in dieci giorni. Quindi hanno visitato le cave di Saluzzo, senza trovare materiale utile; la visita invece in val di Susa risultò fruttuosa, e si decise di usare quel marmo.
Dai libri contabili, si capisce che vennero pagati a parte; a quanto pare molto di più delle altre maestranze. Di chi sia il progetto dei marmi, è un mistero più fitto di quello che avvolge la questione su chi sia il progettista del duomo intero.
Il mistero sul progettista, per l'uomo appoggiato ai marmi, rimaneva irrisolto; Meo del Caprina, Baccio Pontelli o chissà chi altro: il primo era certamente l'impresario che seguì il cantiere (la 'fabbrica') del Duomo, incaricato dal cardinale Domenico della Rovere da Vinovo, che di soldi ne aveva, tanti, per un caso fortuito; si trovava infatti ad essere nobile ed avere lo stesso cognome, una omonimia, di quello del savonese che sarebbe diventato papa Sisto IV; forse per acquisire una impressione di maggiore nobiltà volle avere come consigliere personale proprio Domenico della Rovere, regalandogli rendite da diverse parti e, tra l'altro, rendendolo vescovo di Torino, arcivescovo di Tarantasia e cardinale dell'ordine di san Vitale e, dopo, di San Clemente. Per questo sul duomo campeggia per tre volte il suo nome accompagnato dall'ordine; DO.RVVERE.S.CLE, Domenico della Rovere dell'Ordine di San Clemente.
Perchè scriverlo?
Perchè metterci anche l'ordine?
Perchè tre volte?
Perchè in modo così evidente?
Perchè - e questo pochi lo sapevano - nei marmi del portale di sinistra appare lo stesso nome tre volte, a tre livelli diversi in corrispondenza di quelle che sembrano tre diverse fasi? Queste domande, da troppo tempo, gonfiavano la mancanza di risposte che lo assillava.
Era certo però che le due acquasantiere fossero commissionate proprio a Sandrino di Giovanni; bastava guardarle per notare che il rilievo è lo stesso di quello del vaso della candelora sotto Giano, e proprio per questo ci fu quell'esclamazione 'Sandrino!', perchè prima non gli era stato chiaro, ed ora era propenso ad attribuire tutta l'opera dei marmi proprio a lui e ai maestri Comacini.
Ma, come al solito, ogni risposta apriva un mare di domande; già sapeva che il piccolo balsamo di aver intuito una risposta l'avrebbe fatto sprofondare di più nell'abisso.
Aveva studiato quelle acquasantiere, ed in particolare l'ornamento più alto, uno strano intreccio di pesci con il becco.
Qualcosa che oggi nessuno inserirebbe su una acquasantiera!
Ritornò alle considerazioni di allora, rileggendo dagli appunti:
L'acquasantiera, a sentire le guide del museo annesso al Duomo, è più o meno di quel periodo, 1500; periodo che ha ereditato dal medioevo la simbologia zoomorfa e quella alchemica, doviziosamente rappresentata sui marmi esterni del Duomo.
Ad oggi le uniche spiegazioni che abbiano (per me) qualche senso di queste iconografie zoomorfe sono quelle che legano l'alchimia con la psicologia del profondo; Jung, Mircea Eliade, von Franz, Hillmann tra gli autori che ne hanno trattato.
Il fatto che una autorità religiosa abbia autorizzato, anzi, commissionato, opere di questo tipo può indurci a capire quanto fosse diffusa al tempo la cultura in oggetto; oggi sicuramente nessuna autorità religiosa approverebbe simili rappresentazioni, oggi quella cultura è sparita.
Ogni rappresentazione animale significa istinti, parti dell'inconscio che vengono in qualche modo a galla.
Ciò che è relativo all'acqua, in particolare, è relativo al 'mare' dell'inconscio, mentre ciò che va verso l'alto, il volatile, rappresenta lo spirituale
Mettere insieme caratteristiche zoomorfe come il corpo di pesce ed il becco di uccello vuole unire l'animalità più inconscia, istintiva e profonda con il pensiero più elevato e spirituale; è la rappresentazione di una sublimazione dall'animale/istinto verso lo spirituale/eccelso.
Ben ci sta su una acquasantiera; l'acqua benedetta consente al 'volgo' becero ed istintivo di elevarsi verso i più alti stadi spirituali, è strumento del rito.
In aggiunta, il becco è ornato di denti: raro nel mondo animale, è simbolo di aggressività, di forza, di potenza; l'acqua santa viene usata spesso dagli esorcisti per liberare le persone dai demoni ed è per questo chiamata anche acqua esorcizzata.
Così la timida e accogliente acqua tramite la sua benedizione diventa forza potente che eleva l'animo alle vette dello spirito; la mano, le dita che la raccolgono e segnano la croce sul corpo diventano strumenti del rito, simbolo di potenza sovrumana che eleva l'uomo grazie al compimento del gesto.
Ma il pensiero dell'acquasantiera lo riportò a quella della Consolata, e alla bestia avvinghiata sotto di lei, e alla distanza tra l'acqua santa e il diavolo, visti come opposti: l'una scaccia l'altro, la fonte del bene scaccia il male.
Allo stesso contrasto del Giano bifronte: giovane e vecchio, passato e futuro, gli opposti che si incontrano; uno positivo e forte, l'altro negativo e maligno.
Il negativo, il male, il peccato; quanta parte avevano avuto nella sua vita. Appoggiò la fronte al palmo ancora aderente al marmo, fresco di pietra.
Fu solo allora che vide di sottecchi la ragazza, lì dietro di lui.
Probabilmente lo stava guardando da qualche minuto, e si imbarazzò un po'.
In lei era sparita quella traccia di sofferenza che prima aveva notato, osservandola sulla panchina.
"Ehi, noi ci conosciamo" gli disse con un sorriso.
Lui la guardò, il cuore voleva rispondere "non sai da quanto", ma si limitò a farle un sorriso.
Si appuntò nella mente che non poteva lasciarla all'oscuro di tutto.
Prima o poi le avrebbe parlato.
Prima che fosse troppo tardi.
"Ciao", le disse.
C'è la pagina Facebook di Krueger, e il romanzo si può approfondire e comprare su krueger.losero.net.