2 - Null'altro
Semplicemente furioso, e non sapeva perchè.
Continuava a guardare quella spalla, quel tatuaggio.
Quel piccolo segno... ma com'era possibile che l'avesse fatto, la rendeva così vulnerabile, così riconoscibile.
Il soggetto poi... banale, stupida.
Si, forse un po' stupida; proprio lei.. quasi impossibile.
E non poteva fare a meno di pensare a Lete, il fiume dell'oblio, al cancellare la memoria, e subito dopo ai quattro fiumi del paradiso e poi subito al quattro come numero, al tetramorfo, e al duomo lì davanti, e ai marmi, e alla lotta tra il tre e il quattro e... basta, doveva costringersi a fermare i pensieri.
Il corpo, la femmina, il male; ciò che manca al tre per diventare quattro, la trinità che diventa una quaternità èer rodurre la quintessenza.
Fa male, a volte fa male pensare; soprattutto quando il pensiero è sale su ferite antiche che mai si rimarginano.
Lei poteva sicuramente essere stupida; Lete aveva fatto il suo lavoro, quando si rinasce si dimentica tutto.
Lì in piedi ritto come un palo nel suo abito talare, braccia conserte, sotto il portico del palazzaccio guardava verso il duomo di fronte e lei era lì, su una panchina, a telefonare. Una telefonata d'amore finito, o triste; pianti e recriminazioni, lacrime.
Nel caldo pomeriggio lo sguardo viaggiava dalla ragazza al duomo.
La curva leggiadra tra il taglio dei capelli, il collo, la spalla, il braccio; un invito a lasciarsi innamorare della vita.
La curva, altrettanto leggiadra del taglio della facciata del duomo, il ricciolo di pietra leggero di tonnellate di marmo, a terminare nella rosa... A sei petali! E di nuovo l'abisso. Nei portali tutte le rose hanno cinque petali, nelle acquasantiere tutte le rose hanno cinque petali, la rosa canina, la rosa selvaggia, la sapienza.
Perchè sei qui, e non cinque? In un posto così importante? Perchè sei, due volte?
Non poteva non ricordare le parole del papa in visita a Torino; "Torino è una città di Santi e Luce, e dove c'è la luce occhieggia anche il demonio", e quel contrasto tra il cinque e il sei già lo interrogava, e riportava alla lotta tra il tre e il quattro e di nuovo l'abisso.
La congregazione l'aveva accolto qualche anno prima; vista la penuria di vocazioni, non aveva opposto molte resistenze al suo ingresso nè aveva indagato sulle sue origini. Aveva due compiti: come docente, insegnare lettere e storia nell'istituto interno; come studioso, portare avanti approfondimenti sull'architettura sacra di Torino e, segnatamente, del Duomo e della zona intorno, la cosidetta insula episcopalis.
Aveva accolto queste mansioni con gioia; finalmente un periodo tranquillo, un pasto certo, un letto e un tetto sicuri; dopo quanto aveva passato, giunto verso la cinquantina pensava di non poter richiedere molto di più dalla vita e, in ogni caso, era più di quanto sperasse.
Anche l'abito talare che portava indosso gli dava una certa sicurezza; uno scudo nei confronti di tanta parte delle vicissitudini che l'avevano portato agli estremi della tensione tra i sessi dove tutto il male possibile è vertiginosamente vicino a tutto il bene possibile; esternamente ne restava ancora segnato nelle rughe che gli disegnavano a volte la fronte ma, dentro, pensava di essere giunto ad un punto fermo.
Fino a quando il duomo non cominciò ad interrogarlo.
L'abisso aveva in questo periodo della sua vita preso la forma dei marmi esterni del Duomo.
Come insegnava, una chiesa si legge dal basso verso l'alto, da destra verso sinistra, dall'esterno verso l'interno; ma questa lettura, rivolta al duomo nuovo di san Giovanni era sufficiente a spiegare il posizionamento della prima pietra sotto l'angolo destro, ma era largamente insufficiente a spiegare perchè la prima figura rappresentata fosse un giano bifronte e perchè proprio su quell'angolo ci fosse la meridiana astrologica. Lo accennava appena, durante le spiegazioni che dava ai curiosi o agli amici, così, per inciso, e si obbligava a non pensarci oltre.
Ma lo sguardo intelligente di qualche allievo, la scintilla di curiosità che illuminava gli occhi di qualcuno che alzava la mano per fare una domanda erano punture di spillo nel suo cervello, fitte dolorose che trapanavano la coscienza per non essere ancora riuscito a trovare risposte certe; tornava con la mente agli studi, alla infruttuosa ricerca di qualche spiegazione di quelle lesene così spudoratamente visibili, così marcatamente allusive, e la distanza tra il loro significato e la sua mancata comprensione si amplificava nella distanza tra lui e la curva del collo della ragazza triste; rimbalzavano dall'uno all'altra amplificando la potenza ad ogni rimbalzo finchè fu costretto a distogliere lo sguardo da entrambi.
All'inizio era stato abbastanza facile; interrogando le guide del museo diocesano, leggendo qualche libro nelle ottime biblioteche della città aveva registrato l'opinione comune che i marmi in bassorilievo, soprattutto quelli delle due porte laterali, rappresentassero grottesche, animali fantastici, mascheroni, com'era d'uso a quell'epoca; certo, un po' 'strani', diciamo, un po' 'sui generis', ma poteva essere la moda dell'epoca. Il duomo è l'unico edificio rinascimentale in Torino; probabilmente il committente ch'era vescovo di Torino, ma che viveva a Roma, voleva portare un po' della 'moda' romana qui in provincia.
Fu leggendo un librone recuperato per pochi soldi in una bancarella sotto i portici di piazza Carlo Alberto che qualcosa cominciò a non quadrare.
Innanzitutto non si capiva chi avesse disegnato quei marmi. Poi, non si capiva nè quando fossero stati fatti, nè, esattamente, da chi. Anzi, nel libro mastro dei conti non se ne faceva cenno; ogni singolo mastro e aiutante erano stati degni di una riga, di una nota, di un registro; non gli autori dei marmi.
Non era abituato a lasciare le questioni insolute; gli davano una specie di prurito alla schiena che non lo lasciava addormentare tranquillo, quindi lesse ancora, cercò, approfondì con una specie di furore, come se tutte le domande che la vita gli aveva fatto, e ce n'erano tante, potessero avere risposta in quell'interrogativo; ma più approfondiva e peggio andava; il prurito seguitò per molte notti.
Il committente del duomo era il cardinale Domenico della Rovere: e lo si vede in chiaro, il nome è più volte riprodotto sulla facciata, ogni volta riportando anche 'dell'ordine di san Clemente', chissà perchè, poi.
DO.RVVERE.CAR.S.CLE.
L'incarico della costruzione della cattedrale (la 'fabbrica') era stato dato a Meo del Caprina (Amedeo, o Bartolomeo, da Settignano) a Roma; ma qui si aprivano una serie di interrogativi.
Primo, l'incarico era stato dato a lavori iniziati, quando già erano partire le demolizioni delle tre chiese precedenti e intercomunicanti che costituivano un complesso unico, e iniziata la costruzione della cripta; quindi, qualcuno aveva già progettato il duomo prima di lui. Chi?
Secondo, scoprì che molti studiosi avevano scritto fiumi di inchiostro per definire appunto chi fosse il vero progettista del Duomo; ad oggi, non si sa, se sia il suddetto Meo del Caprina o Baccio Pontelli o chissà chi, visto che il committente, il cardinale, viveva a Roma come collaboratore di papa Sisto IV che aveva a disposizione i grandi maestri rinascimentali.
Terzo, e parte più inquietante: tutti i lavori degli addetti alle sulture, gli 'scalpellini', erano in qualche modo esterni al progetto principale della 'fabbrica' del Duomo; anche i loro pagamenti furono eseguiti al di fuori del conteggio principale, con somme molto elevate rispetto al resto del Duomo. Sembra che il cardinale della Rovere tenesse un capitolo riservato a loro, tramite intermediari. Sembra fossero gli 'scalpellini comacensi' gruppo nomade che si spostava per l'europa a costruire cattedrali, eredi di una sapienza antica; facile il riferimento ai templari, anche se le indagini scendevano ancora più in profondità.
Quindi se era incerta la paternità del progetto del duomo, doppiamente incerta era quella dei marmi della facciata.
Questa cosa lo faceva imbestialire; non poteva arrivare a conclusioni certe nel proprio lavoro.
Eppure il Duomo era lì, da cinquecento anni e più, ed i suoi marmi erano davanti ai suoi occhi, metafora di una meta vicina e irraggiungibile; meta a sua volta parte egli studi disperati e fantastici di una parte della sua vita ormai dimenticata sotto il peso delle ferite, ingobbito dal peso di una conoscenza che, forse, era troppo per un essere umano o almeno, troppo per lui.
Conoscenza che l'aveva piegato, fiaccato quasi a morte già una volta.
Sofferenza che l'aveva innalzato ai vertici dell'illuminazione in quei momenti eterni ed istantanei in cui il tutto entra nella mente e la acceca di luce abbagliando la ragione nell'estasi del corpo. Poteva forse essere sogno, allucinazione, o ricordo distorto? La curva, tra il collo e la spalla, della ragazza trafiggeva ogni dubbio ed incurvava un po' le palpebre sui suoi occhi.
Le ricerche, in tutte le biblioteche, del significato dei marmi dei portali laterali fu senza frutto. Molto era scritto sullo stile, sul materiale, sul modo con cui furono scolpiti; nulla, ma proprio nulla, sul significato.
Così cercò di capire da solo.
Se c'è una chiave, qui, l'ha messa un uomo. Io la troverò.
Disegnò su un foglio lo schema delle figure; sul portale di destra, esistono due strutture parallele per un po', poi ognuna va per la sua strada.
Su quello di sinistra tutto è asimmetrico; inoltre in tre punti c'è scritto il nome del committente, del cardinale Della Rovere. Se c'è scritto questo nome tre volte ed in punti diversi, pensò ci deve essere stata una intesa profonda tra chi l'ha disegnato ed il committente; la spesa era ingente, erano state chiamate persone apposite per scolpire i marmi e li avrebbero scolpiti così... a caso, come dicono le guide? Grottesche, mascheroni, motivi floreali? Ma scherziamo?
La sua mente si rifiutava di pensare ad una soluzione così semplicistica.
E poi i fiori, le rose: tutte a cinque petali, la rosa canina, selvatica, il simbolo, anche, della conoscenza dei templari.
La ragazza alzò il tono di voce. Forse piangeva.
Come puoi non ricordare, pensò il prete, che tiranno Lete, il cuore gli diceva.
La spallina del reggiseno sulla spalla, sopra al tatuaggio.
Il rilievo delle spalline, spuntava sotto la maglietta a costruire l'ossatura di un desiderio di carezze.
Lo sguardo della persona ritratta nel tatuaggio, sulla schiena che paradossalmente gli ricordava... tutto.
Naturalmente la ragazza non sapeva nulla, ma quello sguardo, tagliente, sulla sua schiena, rivolto al contrario non rappresentava insieme al suo viso quello stesso Giano bifronte eternamente fissato nel marmo? Guardo avanti, femmina, guardo indietro, maschio. Futuro, passato, estate, inverno e via di polarità in polarità, vedeva le coppie librarsi in aria, come in sogno, e poi qualche coppia sdoppiarsi come farfalla a formare una croce e, di nuovo la croce nei quattro fiumi del paradiso, nelle stagioni, negli elementi, nel tetramorfo, nell'apocalisse, nei suoi Viventi e via ancora... nell'abisso.
Troppo umano, sono diventato, troppo debole, pensò in risposta all'istinto di andare a farsi riconoscere.
Non è così che deve andare.
La disperazione nella voce della ragazza si faceva più forte; il prete pensava ai patimenti d'amore che la avrebbero fatta soffrire e l'avrebbero costruita assieme, a quelle scelte che non si possono evitare e che costringono le persone a costruirsi, pensò con tenerezza alla sofferenza che l'avrebbe portata là dove lui l'aspettava, dove l'aveva già trovata.
Gli mancava in modo doloroso; pensò devo trovare un modo per averla vicina, per farle sapere; lei capirà. Non ci sarà bisogno che mi conosca, non ci sarà bisogno di avere rapporti, saremo comunque collegati come allora; voglio solo questo.
Null'altro.
Con questo pensiero finalmente chiaro, Joseph Krueger si alzò e andò verso il Duomo, per accarezzare ancora una volta il Giano bifronte; mascheroni e grottesche, pensò, e sorrise passando davanti alla ragazza che gesticolava e piangeva.
In quel momento si accorse di un fenomeno bizzarrro: le voci intorno sembrava assumessero strani andamenti ad onde e, per le strade, si diffuse uno strano odore di carta e incenso.
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