10 - un duomo di gelsomino
Al mattino correva sotto i portici di Torino; si svegliava alle 5.55, partiva dalla scuola dov'era ospitato e via di corsa: un percorso quasi interamente coperto dai portici da poter utilizzare anche nei giorni di pioggia.
La corsa era a volte preceduto dalla recita delle lodi del mattino; salmodiare nella cappella della scuola con gli altri confratelli gli dava un senso di appartenenza al mondo e alla storia.
Sotto l'abito talare indossava pantaloncini e scarpe da ginnastica, in modo da poter subito sgattaiolare dopo l'ultimo Gloria.
Poi la corsa; ormai aveva imparato come correre, c'erano voluti anni ma ora c'era riuscito in pieno.
Partiva da corso Vinzaglio, con i suoi palazzi storici, gli androni grandi e lussuosi. I primi due o tre minuti servivano a poco; solo a rompere il fiato e a mettere il corpo in condizione di proseguire da solo. Dopodichè tutto avveniva automaticamente; entrava in uno stato di partecipazione mistica nel quale i pensieri potevano liberamente fluire, una specie di meditazione in cui ogni pensiero acquistava una potenza superiore, come se fosse nutrito meglio ad ogni passo. In questo modo l'ora che passava a correre nelle frescura del mattino diventava una fontana di idee e nuove illuminazioni; in qualche modo lo sforzo fisico riusciva a far tacere il controllo della mente sui pensieri e, tolto questo tappo, lasciava fuoriuscire liberamente ciò che sorgeva dal più profondo.
A volte, addirittura, riusciva a mantenere la connessione con la notte. Capitava d'inverno, con il freddo e con il buio, saltando le lodi passava direttamente dal letto alla corsa cercando di unire il dormiveglia con l'ebbrezza da fatica dando continuità ai flussi dal profondo: partivano dal sogno e procedevano nella piccola estasi della fatica della corsa.
Percorreva la svolta in corso Vittorio Emanuele; il grande viale con la statua in mezzo, la mente ora calda, pronta, ricettiva. Portici un po' più grigi, ambiente in qualche modo più moderno.
Aggiungendo un po' di razionalità a volte era spaventato, a volte illuminato, a volte incuriosito da questo strano sè stesso in grado di produrre pensieri in fondo non suoi; aveva imparato che era necessario solo registrarli, appuntarli a mente, per poi riprenderli nel giorno e affrontarli.
Raggiungeva la stazione di Porta Nuova, svoltava in via Roma; razionale ed elegante, prima la parte progettata dall'architetto Piacentini così spigolosa ed essenziale - razionalista -, poi, dopo piazza san Carlo, quella in finto '700; ogni volta si chiedeva quale delle due fosse meglio riuscita. In mezzo, Piazza San Carlo; passando a fianco della chiesa di Santa Cristina guardava le finestre dell'oratorio delle Carmelitane Scalze, qualche tenue luce accesa testimoniava che probabilmente a quell'ora qualcuno recitava le lodi.
Quindi piazza Castello; poi il percorso era in leggera discesa fino al Po, sarebbe stato in salita al ritorno; anche questa piccola variazione altimetrica era stata oggetto di una specie di illuminazione quando aveva collegato la recita delle lodi con il desiderio che provava di andare a toccare l'acqua del Po durante la corsa. Così come le lodi lo riportavano ad una radice di sapienza profonda che gli illuminava la giornata il desiderio fisico di 'scendere fino all'acqua' e toccarla per esserne bagnato rappresentava nella corsa un punto forte, un momento topico a cui tendeva, quasi che la corsa potesse costituire una particolare liturgia dell'anima, un gesto con cui illuminare la giornata.
L'acqua rappresenta simbolicamente la conoscenza: dai suoi studi sulla simbologia il concetto appariva chiaro ed il volersi 'abbeverare' alla conoscenza prima di iniziare la giornata poteva essere fatto con la recita delle lodi o con il rito del passaggio sul Po, semplicemente due modi diversi di esprimere il 'gesto del mattino', un gesto che può appartenere ad una serie di altri che compongono nella giornata un modo per seguirne il flusso, per essere armonici con il tempo che passa. Per passare, in fondo, dall'essere dominatori del tempo alla consapevolezza di esserne dominati.
Da quel momento, da quando lasciava il Po e tornava in salita verso il centro, era come se fosse un ritorno, un rientro, come una discesa dopo che si è raggiunta la cima in una gita in montagna. Si sentiva un po' stanco ma piacevolmete tonico, i pensieri sereni, pronto ad affrontare gli impegni della giornata; ed era proprio questo ultimo quarto d'ora quello in cui era in grado di comandare meglio la mente, di dirigere i pensieri nella direzione voluta, ordinandoli in base alle necessità; per questo li mise in ordine, uno dietro l'altro.
Velocemente passò gli impegni di lavoro: lezione di italiano sul Romanticismo, correzione temi, riunione con i colleghi per i programmi. Tutto facile.
La ragazza dell'organo di San Filippo, Minah. Da subito l'aveva 'sentita' diversa e vicina, anche quando l'aveva rivista davanti al Duomo.
Poi quello che era successo con lei... non poteva non succedere. Non si sentiva in colpa.
La donna conosciuta in Duomo. Ecco, questo sì che era un bel pensiero; una via spedita alla conoscenza. "E' una discesa verso l'acqua come via Po" - pensò. Con un sorriso.
Poi il modo con cui l'aveva guardato Destefani quand'era con lei in piazza Castello. Perchè era così stupito?
E l'accusa di pedofilia, e quelle foto. Anche qui pensò che non poteva non succedere, che non si sentiva in colpa.
Questi erano i pensieri che gli avrebbero popolato la giornata; com'era d'abitudine se li coccolò un po' come se fossero vecchi amici da tenere buoni; sapeva che ognuno di loro avrebbe voluto un po' di tempo per sè, che i pensieri vengono proprio per quello, perchè vogliono stare un po' con noi, fare un pezzo di strada insieme.
Anche quelli più cupi, come quelli dell'accusa di pedofilia, pur facendogli male non riuscivano a sopraffarlo, men che meno a gettarlo nella disperazione; questo in realtà gli dispiaceva, sapeva dall'alchimia quanto fosse necessario, per crescere, la nigredo, lo stato di putrefazione del corpo e dell'anima, per crescere il momento in cui ci si sente bruciare dentro e si anela all'acqua che lo spenga. L'alchimia come psicologia del profondo l'aveva conquistato ormai da tempo; gli anni passati a studiare la trasformazione della materia gli avevano regalato una mente robusta, la pietra filosofale gli era vicina.
Svoltando da via Cernaia in corso Palestro tutta la sua forza fu messa a dura prova da un solo sguardo. Anzi, due sguardi, uno dietro l'altro.
Il primo fu di Minah. Lavorava in un banco al mercato sul corso e quasi si scontarono.
Il secondo fu della donna del Duomo; stava prendendo un caffè ed era seduta proprio nel bar di fronte, aveva girato lo sguardo mentre i due si stavano per scontrare.
Nessuna delle due donne si aspettava di vederlo così; l'avevano sempre visto in abito talare, vederlo ora correre atletico in maglietta e pantaloncini le colpì entrambe.
Il triangolo di sguardi aumentò di intensità senza che si riuscissero a dire nulla.
Le due donne non erano così sicure che fosse effettivamente il prete che avevano conosciuto.
Entrambe inoltre videro che lui guardava alternativamente una e l'altra; quindi si guardarono tra loro, una con in mano quella che era stata una scatola di banane piena ora di mercanzia, l'altra dietro il vetro del bar con il caffè in mano che restava a mezz'aria, non sapendo bene cosa fare.
"Ciao Minah" - disse lui, respirando più affannosamente del dovuto e rompendo gli indugi, confermando così la propria identità.
Lei aveva una maglietta sottile, un paio di fuseaux corti fino alle ginocchia e le solite scarpe troppo grandi. Posò la scatola, bofonchiò un buongiorno e tradendo la sorpresa per essere stato sorpreso in quelle vesti con dei mezzi sorrisi accennò alla possibilità di suonare ancora sul restaurato organo di san Filippo.
Le diede qualche risposta rimandando ad un futuro colloquio maggiori approfondimenti, cercando di sgattaiolare via al più presto; ma qualcosa lo fermò. Gli occhi di Minah esprimevano un piacevole stupore; lei lo stava trattenendo con altre domande per averlo ancora un poco vicino.
Lui ne rimase a sua volta un po' stupito; e nella condizione piacevole in cui ci si sente desiderati si trattenne ancora un poco, assumendo un atteggiamento più sicuro prima di trovare una scusa per andarsene; si sentiva comunque un po' impacciato, e sicuramente molto sudato, quindi cercò di salutare e andarsene, visto che con la coda dell'occhio vide che anche la donna del Duomo se n'era andata, non c'era più al bar.
Riprese la corsa, ma non durò molto; all'angolo successivo, quello con via Bertola, la donna si fece vedere a qualche metro di distanza, cercandolo con lo sguardo; lui non potè evitare di fermarsi a salutarla, ancora più imbarazzato per il sudore e l'abbigliamento.
Lei aveva quello che giudicò uno strano vestito, leggero ma molto largo in fondo a chiudersi ai piedi quasi come un uovo; le ricordò un vecchio acquarello di Victor Hartmann - "guarda Trilby" - pensò. A lui sembrò meno conturbante e bella di come se la ricordava, trotterellò verso di lei rallentando la corsa; ma quando le fu vicino i suoi occhi gli ricordarono perfettamente perchè l'aveva considerata conturbante e bella, e si pentì un poco ad averla pensata come Trilby.
Lei lo guardò arrivare, squadrandolo da testa a piedi forse in modo più insistente del necessario, utilizzando anche lo sguardo professionale che negli anni si era costruito; si lasciò sfuggire un risolino compiaciuto, al 'buongiorno!' di lui rispose con un'occhiata al corpo e con un 'non male, eh!' accompagnato da un largo sorriso.
"Devo andare, perdonami" le disse subito per togliersi d'impaccio, piacere di averti rivista... e si accorse di non saperne il nome, e lasciò la frase lì a forma di punto interrogativo.
"Verdiana" - lei disse, mi chiamo Verdiana. Anzi, Verdiana Bonavischio, per dirla tutta.
"Verdiana? Sicura?"
Nell'immaginario di Krueger si presentò Santa Verdiana, la santa dei serpenti; e subito pensò al quarto mancante: il corpo, la femmina, il male.
"Come sicura! E' il mio nome!"
Uno strano sguardo passò negli occhi di Krueger, che si piantarono un po' troppo insistenemente in quelli di Verdiana, che ne provò una strana, interrogativa sensazione.
Uomo interessante, sì, definitivamente, pensò, e rompendo gli indugi gli propose due passi nel pomeriggio per continuare le chiacchiere, magari andando insieme alla mostra d'arte che s'era inaugurata a palazzo Madama da pochi giorni.
Perchè no lui disse, certo, stassera alle sei va bene, ci vediamo lì davanti. A stassera! E risprese la corsa e trotterellando tornò verso l'istituto con un vago sorriso dipinto in viso... Verdiana, Trilby... che combinazione.
Lei lo guardò ancora un po' e disse che voleva da lui un favore:
"non venire in abito talare... puoi?"
Più o meno un'ora dopo, mancavano pochi minuti al suono della campanella dell'inizio delle lezioni e l'incontro con il preside in aula docenti non fu piacevole.
L'ometto con un viso ostentante falsa sofferenza disse:
"Professore, dobbiamo parlare di quella incresciosa situazione; se le è possibile domattina potermmo incontrarci verso le undici nella sala dei colloqui? se possibile vorrei che mi aiutasse a chiarire, e se possibile mettere a tacere, le voci su di lei per il bene e la reputazione della scuola."
Se possibile, se possibile, se possibile... che falsa gentilezza, pensò. Non aveva possibilità d'uscita e disse un 'va bene' secco.
Ragionò su come la vita presenta sempre accanto ad aspetti positivi altri negativi; non si ha tempo di godere di una buona cosa che subito... ecco l'altra negativa che la segue. Ormai da tempo aveva capito quanto ciò fosse una regola e quanto le cose corressero una nel verso opposto all'altra, come se si trattasse di un sasso legato ad un elastico; lo si può scagliare fortemente in una direzione ma più ci si sforza da una parte, tanto più forte tornerà indietro. Non era, questa, una conclusione filosofica a cui era arrivato da solo; gli studi sull'alchimia lo testimoniavano in modo chiaro, anzi, faceva parte di quella 'propedeutica alchemica' della quale aveva sognato di tenere corsi; le nozioni basilari, il cerchio formato dall'uccello con le ali e quello senza ali, uno col becco che afferra la coda dell'altro, nell'infinito rincorrersi di due aspetti della stessa cosa.
"Per fare i miracoli della cosa una" recitava nella propria mente.
"Vero verissimo, come in alto così in basso, "Verum, sine mendacio certum et verissimum, quod est inferius, est sicut quod est superius, et quod est superius, est sicut quod est inferius: ad perpetranda miracula rei unius", sorrideva pensando alla traduzione "per fare i miracoli della cosa una", veramente insignificante nei confronti del latino, "ad perpetranda miracula rei unius"... tutt'altro suono.
Aveva ancora in testa la tavola smeraldina di Ermete Trimegisto che conteneva queste parole quando entrò in classe, e compilato il registo alzò gli occhi sulla classe.
Li guardò in viso.
Tutti, uno ad uno.
La classe si imbarazzò - perchè non parla, perchè non dice nulla.
Qualche colpo di tosse, tanto per sdrammatizzare il momento.
Li guardò ancora in viso singolarmente, teneramente, e li amò; ogni volta che le parole della tavola gli venivano in mente provocavano effetti collaterali, dando potenza ai suoi sentimenti.
Ad perpetranda miracula, si ripeteva fissandoli, vedendo quel 'perpetranda' negli occhi vivi dei ragazzi, mentre i pensieri andavano alla contemplazione della 'cosa una' che in loro si rifletteva e convergeva su di lui con i loro sguardi.
Un attimo ancora su quegli occhi e gli si lacerò la mente percossa da un pensiero lancinante, improvviso e ingestibile; nella solita visione mentre camminava in mezzo ad una chiesa romanica illuminata da torce aveva di fronte la donna che lo guardava serena e prima che sganciassero contemporaneamente la spilla che fissava al collo i mantelli lui portava la mano destra che prima teneva un fiore verso di lei e le consegnava qualcosa, sembrava un piccolo oggetto che lei prendeva in mano e portava al petto.
Quel passaggio dell'oggetto gli riempiva la mente, lo accecava, non vedeva cosa fosse ma notava il colore blu, blu intenso, sembrava quasi luminescente: il gesto lo rivedeva due, tre, infinite volte nel giro di pochi decimi di secondo.
Poi, come al solito dopo le visioni, rimase scosso ma profondamente calmo, lucidissimo.
La condizione ideale per una lezione; gli si allargò un sorriso in viso, dicendo ragazzi scusate ero un po' sovrappensiero, partiamo con la lezione anzi, partite voi: vince chi insulta meglio il Romanticismo, ma voglio che ci andiate pesante.
Anche il viso di Rapetti Francesco, detto Ciccino, si illuminò come quello deglia altri, alzò la mano e fu il primo a parlare sfoderando critiche efferate alle quali il professore, come fosse un accusato, rispondeva in toni accesi, come se si fosse trattato di un processo in tribunale. Gli piaceva insegnare così: la classe si divertiva e in quelle condizioni, pensava, si impara meglio.
Fu trattando della spiritualità instintiva, e dell'istintivo senso religioso, della forza delle tradizioni popolari proposte dal Romanticismo che si accorse di avere un pensiero che lo stava guidando, che lo stava portando a parlare di qualcosa che lo interessava; lo capì esattamente percependo di non essere lui a guidare la lezione; di non esser lui, in fondo, neanche a guidare sè stesso, ma di essere preda di forze non controllabili.
L'aveva imparato che le cose stavano così; invece di opporsi come tante volte aveva fatto, acconsentì fiducioso alle forze che gli nascevano dentro e cercò di annusare l'aria, di capire come avrebbero raggiunto il loro scopo; quindi parlò liberamente, senza cercare di controllarsi come se fosse un osservatore esterno di sè stesso.
"Cos'è che mette insieme due persone, secondo voi?" chiese. "Perchè due si fidanzano? Proprio perchè esiste questa forza profonda, questa ricerca nel profondo di sè. Quando due persone mettono in comune la propria parte più istintiva e profonda, allora può succedere che s'innamorino."
A questo punto il discorso deviò un poco dal Romanticismo, ma la classe s'era infervorata.
"Provate a pensare a Lucio Dalla, Anna e Marco, la canzone; qualcuno la conosce? Lo descrive molto bene; mettono in comune i propri bisogni fondamentali e stanno insieme. Cito. Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano, qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano."
Riprese.
"Contemporaneamente al Romanticismo, su questi stessi presupposti, in Russia si formò il "gruppo dei cinque"; intellettuali, poeti e musicisti, che allo stesso modo rivendicavano lo spirito della propria terra, uno spirito di riconquista delle radici istintive e nazionali; tra questi anche Mussorgsky, il famoso compositore."
"Quello dei 'Quadri!'" disse qualcuno.
"Sì, quello dei 'Quadri di una esposizione'."
Fu esattamente lì che Krueger si rese conto della strategia delle forze che lo stavano guidando. Non fece resistenza, come faceva una volta, le lasciò andare, tranquille; anzi le ammirò, come quando si ammira l'intelligenza che ha scritto la sceneggiatura di un sogno, lontana da sè ma comunque dentro di sè. Contemporaneamente a questo sentimento di ammirazione, la visione della donna che accoglie l'oggetto blu si ripetè.
"Mussorgsky scrisse i 'quadri' vedendo una mostra dedicata ad un architetto pittore a cui era molto legato, Victor Hartmann, morto di enfisema a trentanove anni qualche mese prima; Mussorgsky ne aveva trentacinque. Era affezionato e fu molto colpito dalla mostra, organizzata da un amico comune al quale dedicò la composizione che è per pianoforte, poi orchestrata magistramente qualche anno dopo da Ravel.
In questa composizione per pianoforte, molto immaginifica e nella quale lo strumento è usato in modo anomalo per l'epoca, si alternano 'passeggiate' tra un quadro e l'altro alle descrizioni musicali dei quadri stessi; c'erano circa quattrocento disegni, aquerelli e quadri di Hartmann, dei quali non se ne conserva più quasi nessuno."
Ci fa qualche esempio di quadro musicato?
"Certo!" disse, sorridendo per i pensieri che gli stavano pulsando in testa, e seguì la descrizione di alcuni quadri: l'ebreo ricco e quello povero, la grande porta di Kiev, lo gnomo.
"...e tra gli altri c'è il 'Balletto dei pulcini nei loro gusci' che si ispira ad un balletto in cui alcuni allievi di una scuola di arte drammatica dovevano comportarsi come pulcini".
"Che parte è? Ha un titolo?" Chiese Maretti Francesco curioso.
Kruger aspettò un attimo, pensando alla figura descritta nel balletto, pensando a sè, alle forze interiori, alla mattina. Poi rispose.
"Sì, si chiama Trilby".
Finita la scuola trovò una sorpresa in sala professori: don John Chiodi, che lo sotterrò veemente in un abbraccio forte e sincero.
Si erano conosciuti qualche anno prima risiedendo insieme in quell'istituto; poi lui era partito in missione nel Messico, insofferente delle gerarchie che la congregazione imponeva, convinto di essere molto più utile nei sobborghi poveri messicani che tra le mura di una scuola privata borghese del centro di Torino. Gioviale, estroverso e sempre allegro, lo invitò a pranzo
"Certo, andiamo in mensa" disse Krueger.
"Ma quale mensa!!" guarda che giornata... andiamo fuori, portami in qualche bel posto ma togliti questa pelandrana " - e disse sottovoce con un occhiolino - "sembri un prete!".
Si cambiò pensando che per due volte nella stessa giornata gli avevano chiesto di togliere l'abito talare - doveva essere un segno - e finirono a mangiare e a chiacchierare sotto gli alberi di piazza quattro marzo, sorridendo e raccontandosi le vicende degli ultimi anni.
A fine pasto John tirò fuori dalla borsa a tracolla che sembrava senza fondo - quanti misteri, in quella borsa, pensava Krueger - una bottiglietta di Mezcal, il liquore messicano, un tipo di Tequila con un grosso verme al fondo.
Era una bottiglia piccola, meno di mezzo litro, e il verme lì sembrava ancora più grande, ingrandito dal vetro e dalla rifrazione del liquido.
John, guardando Krueger in trasparenza dietro la bottiglia, disse: "Mezcal anejo, altro che quello giovane; lo vedi, dal colore più carico, ha un gusto più morbido e in soli 55 gradi di alcol".
"E il verme?"
"Uh, ha un sacco di proprietà magiche; è un afrodisiaco, un allucinogeno e ti rende più ubriaco".
"Una trovata commerciale!"
"Certo!!!" e risero tutti e due.
John continuò. "A Oaxaca ho conosciuto Antonio De Leòn Rodriguez, un biologo molecolare. Ha indagato la composizione del Mezcal con e senza gusano, cioè il verme. Servirà per il marketing, ma altera anche la chimica del liquore, aggiunge composti saturi e insaturi come il " - e scandì bene- " cis-3-Hexen-1-ol; bel nome vero? E' usato nell'industria dei profumi per la sua fragranza di foglie ed erbe ed è un ferormone per molti insetti e mammiferi; è provato come sia coinvolto nei fenomeni di attrazione tra animali, non è provato che lo sia per gli esseri umani - 'Il metzal ti rende felice' - mi diceva De Leon".
"Quindi vuoi dire che possa essere veramente un afrodisiaco? cioè che lo sia chimicamente?"
"Che me ne frega? Ho fatto voto di castità, io." - e scoppiò a ridere. Poi fingendo serietà: "Ma tu no".
John conosceva molto bene Krueger, scandì bene le sillabe, e ne versò un poco in entrambi i bicchieri.
"E' pomeriggio, devo correggere i compiti, devo...".
John prese il suo bicchiere e cominciò a sorseggiare.
Il verme si muoveva ancora al fondo per effetto del movimento della bottiglia.
Al termine della via il Duomo risplendeva nei suoi marmi bianchi e nelle sue austere dolci forme.
Krueger non sapeva se il Mezcal potesse dare la felicità, ma il viso del suo amico ne aveva qualche certezza in più.
Continuava a sorseggiarlo, piano, dolcemente, assaporando la brezza leggera nella tranquillità del dopo pasto; non guardava Krueger, il volto era perso lontano tra qualche nube che pigramente si allungava nel cielo sereno; lo sguardo tornò sull'amico solo quando ne percepì il movimento della mano che prendeva il bicchiere e lo portava alle labbra.
Un sorso, e un secondo.
John guardò l'amico in viso, e gli disse "è solo marketing", e risero un poco insieme.
Non ne bevvero oltre ma chiacchierarono ancora parecchio, poi si salutarono e John lo sommerse di nuovo nel suo abbraccio generoso e fecondo.
Fu tornando verso l'istituto che Krueger pensò che quell'uomo ogni volta che lo incontrava gli lasciava qualcosa di buono e grande addosso, un sentimento di amicizia e di riconoscenza, e... forse altro.
Sentì qualcosa di pesante nella giacca, e trovò nella tasca la bottiglia di Mezcal.
Assaporando la giornata calda con la brezza fresca si attardò a passeggiare un poco fino ad accorgersi che ormai non aveva più tempo di correggere i compiti, si avvicinava l'ora dell'appuntamento a palazzo Madama per la mostra d'arte. Arrivando da via Garibaldi verso Palazzo Madama con qualche minuto d'anticipo la vide da lontano.
"Altro che Trilby" pensò.
Diffondeva eleganza leggera e sofisticata; nessuna sbavatura, nessuna esagerazione, leggera femminilità coronata da un sorriso divertito ondeggiante sui tacchi.
La raggiunse con un 'buonasera!' tra il timido e l'invitante, lei gli sorrise e gli accarezzo appena il gomito, come fosse il riassunto di un abbraccio, restituendo il saluto; entrarono in Palazzo Madama salendo dallo scalone di Juvarra e lui si fermò un attimo a contemplare l'effervescente leggerissima bellezza di quei marmi imponenti, delle arcate saettanti, dei finestroni di luce immensa, e respirò il suo profumo, pensò alla corsa del mattino, alla lezione con i ragazzi e al Romanticismo, e a John e al Mezcal, e non potè che ringraziare la vita per avere così tanto e che sì, la pietra filosofale, esisteva.
Lei si stava abituando a quegli attimi di rapimento che quell'uomo spesso aveva; sembrava respirare più avidamente come se potesse introiettare storia, cultura e significati dalla luce che gli entrava negli occhi attraverso ciò che vedeva.
"Un caffè prima della mostra?"
Si avviarono verso la caffetteria, in un angolo bellissimo del palazzo splendente della luce che entrava dalle grandi finestre e rendeva ancora più accoglienti i pigri divanetti pronti ad accoglierli.
Sui tavolini i due caffè fumanti, qualche parola sulla mostra: van Gogh, lui non ne sapeva un gran che ma lei sembrava una vera esperta.
A lei non sembrava vero di conoscere qualcosa meglio di lui, così esperto in tutto; dolcemente si mise a spiegare ciò che sapeva del pittore e di ciò che avrebbero visto e, spiegando e gesticolando, urtò il petto di Kruegg, proprio dove era riposta la bottiglia di Mezcal.
Lo sguardo di lei divenne divertito e interrogativo; non osava chiedere a parole cosa ci fosse in quella tasca, ma il viso esprimeva la domanda con altrettanta efficacia, così Krueger tirò fuori la bottiglia per fargliela vedere.
In quella luce del tardo pomeriggio estivo brillava ancora di più, come un gioiello, ed il verme le conferiva un aspetto spaventoso ed affascinante. Gli occhi di lei erano totalmente conquistati dall'oggetto, sentiva salirne dentro un appetito quasi animale, un luccichio dell'anima che a volte aveva provato di fronte alle perversioni dei propri clienti, una voglia irriducibile di curiosità, di conoscenza, di appagamento.
Tenendo la bottiglia in alto lui ripetè le spiegazioni di John, pur non ricordando il nome di quello strano composto.
Lei si alzò, andò al banco del bar e tornò con due bicchierini vuoti, li pose davanti a lui senza parlare.
Lui pensò eh no, di nuovo, ne ho appena bevuto prima, sono a stomaco vuoto, sarà solo marketing, ma davanti ho una donna e stiamo per passare la serata insieme.
"Appunto", si rispose, e versò il liquore nei bicchierini.
Dopo il caffè aveva un gusto diverso, quasi mutato rispetto a prima; ma la sensazione di appagamento splendeva sul viso di entrambi.
"Il mezcal rende felici, dicono", disse lui.
"Più felici", lei sottolineò con uno sguardo di intesa; e si avviarono verso la mostra.
Ma che ci faccio qui, con questa donna che mi fruga il cuore, con questa bottiglia nel taschino.
Dove mi ha portato questa vita?
Ho scavato, scavato, scavato. Ho trovato cose forti, vere, ho costruito la mia casa sulla roccia; i pilastri della specie umana mi sono balenati davanti, li ho visti, mi sono prostrato davanti a loro, sono stato in territori della mente dove pochi uomini possono essere stati, ho conosciuto cose che pochi hanno conosciuto.
Kemia mia, terra nera, favola dei miei giorni. Mia luce, mia forza, mia saggezza: a te mi inchino.
'ad perpetranda miracula...' io so, io conosco, respiro forte le radici dell'Uomo.
E ancora una volta il vento spazza tutto.
Un poco alterato, un poco illuminato, da questo mezcal che mi scorre nelle vene; un poco soggiogato da questa donna che pesca a piene mani dalle profondità degli uomini, che ristabilisce i ponti tra i generi, che porta l'equilibrio tra il maschio e la femmina.
Non pensavo di vivere fino a questo; pensavo al brivido del miraggio di un equilibrio più avanti, oltre a questa esistenza.
E invece.
E invece sono qui, davanti alla toilette di un museo, ad aspettare che lei esca per andare insieme a questa mostra; e non voglio altro, ora.
Anni di studi.
Scudi innalzati contro il mondo, così becero; l'abito talare come protezione contro l'ignoranza del volgo, contro le insidie degli istinti, contro il velo di Maya.
Anni di visioni.
Perforato, tormentato, scosso da questo sogno cosciente, così struggente da non poter desiderare altro che saperne di più. Eppure così limitato nel tempo, così indipendente da me, così forte, così puro, così vero da non poterne dubitare.
Una certezza litica, un punto saldo: nella mia vita quella visione è la traccia del mio destino, forse del mio passato, forse del mio futuro; infine, che differenza fa? Solo lì c'è certezza.
"E cos'è quel viso così serio? Andiamo!"
Il sorriso sui tacchi lo invitava a procedere, si ridestò dai pensieri e la seguì nelle sale dell'esposizione.
Van Gogh. La prima cosa che intercettò furono i colori, ma non lo colpirono direttamente, in realtà rimbalzavano.
La cosa che lo stupì fu proprio questa: percepiva attraverso i quadri come il pittore fosse stato stregato dai colori del mondo e come avesse cercato di riportare questo struggimento sulla tela, cercando in questo modo di condividere queste sensazioni così potenti.
Con questa chiave di lettura procedette nelle altre stanze, ma ne fu sopraffatto.
Si trattava di una mostra multimediale; non c'erano quadri esposti, ma una serie di proiettori riempivano le pareti di dipinti, movimentandoli e associandoli a musiche coinvolgenti. Mentre lei spiegava i periodi, i metodi, i nomi dei quadri lui fu trafitto da questa sensazione di immedesimazione nelle sensazioni del pittore prima che cominciasse a dipingere e vedeva nei quadri il veicolo per percepire quella sensazione primordiale, istintiva, totalizzante.
Si sentiva un po' oltre il normale, come se avesse una certa ipersensibilità.
Già il Mezcal l'aveva innalzato rispetto alla normalità; la vicinanza di quella donna, così prossima ai segreti del regno dei maschi, ancora lo portava in alto; i colori, i quadri ancora di più; le musiche ancora... si sentiva come un essere dalla pelle sottilissima e sensibile, pronto ad esplodere ad ogni nuova emozione eppure desideroso di averne ancora altre, e di più e più forti.
Passava da una sala all'altra con l'entusiasmo di un bambino, drogandosi di colori e musica, sottobraccio a quella che era il suo passaporto verso il pittore, la sua guida verso le emozioni.
Una nuova stanza con proiezioni su tutte le pareti lo conquistò con i blu e con i gialli; le prime note del concerto di Colonia di Keith Jarrett lo stesero definitivamente, portandolo ad abdicare il suo livello cosciente. Ormai non era altro che un fascio di emozioni in preda agli avvenimenti; si sentiva debole e contemporaneamente fortissimo, di una lucidità mai provata insieme alla provvisorietà di un cristallo finissimo ed elegante che si confondeva con... il suo profumo, che lo portava in uno stato di coscienza impalpabilmente leggero.
Lei percepì questo stato di delicatissima ebbrezza lirica nell'uomo che aveva a fianco, nell'uomo che stava interrogando la sua stessa essenza di donna messa al servizio dei vizi degli uomini, servizio al quale lui sembrava riservare una nobiltà impensata fino ad allora.
Attraverso lui veniva riflessa la sensibilità verso i quadri che le rimbalzava addosso; vedeva nei quadri che conosceva a memoria nuove note, nuove melodie e accenti così forti da stupirsi di non essersene mai accorta prima.
Un ambiente era stato arredato con cuscini; le proiezioni avvenivano sulle pareti ricurve verso il soffitto, una specie di cupola; i visitatori venivano invitati a stendersi sui cuscini, dei grossi futon, per ammirare sulle pareti e sul soffitto i quadri proiettati mentre la musica ne sottolineava la sequenza e gli umori.
Si stesero vicini.
Lei appoggiò il viso, ed un braccio, sulla sua spalla, sul suo braccio.
"solo oggi, solo ora", gli disse.
Lui voleva dirle "no, non solo oggi" ma si limitò a guardarla e a sorridere, e a sentire dolcemente il suo corpo caldo vicino a lui, ricordando la dolce sensazione di una femmina accanto al suo corpo; erano anni che non succedeva in quel modo così dolce.
Dalle pareti attraverso le proiezioni cominciarono a scendere parole. Una dietro l'altra: parole scritte con una calligrafia veloce, lettere intere scorrevano, e lui le sentiva una ad una, le parole che vogliono descrivere l'acqua della conoscenza che fluisce lungo le pareti come un velo liquido.
"Le lettere al fratello", lei gli disse, "ne ha scritte centinaia, spesso una al giorno". Lui riconobbe nella calligrafia l'intensità dell'emozione, la vicinanza con il fratello, l'assonanza spirituale; e subito tornò alla mente la mattina a scuola e gli occhi di Maretti Francesco detto Ciccino, l'amicizia forte tra Victor Hartmann e Vincent Mussgorsky, e quasi pianse al pensiero del dispiacere di Vincent nel sapere della morte di Victor, e a quanta forza e disperazione e amore fosse legata ogni singola nota dei 'quadri', e si riporpose di scandargliarle una ad una per distillarne la forza e il senso, di chiedere a Minah di suonarle una volta per lui; oh,l'avrebbe adorata se l'avesse fatto.
Poi successe l'inaspettato.
Già era emozionato, per molti motivi: la donna, Mussgorsky, le lettere, Minah, i quadri. Il Mezcal.
Ma non doveva succedere quell'altra cosa; ogni persona può contenere una certa quantità di emozioni, dopodichè va in sovraccarico e... sbarella, si dice, non contiene più così tanto dentro di sè, non ce la fa a sopportare così tanta intensità nella stessa unità di tempo e di spazio. Avrebbe voluto avere una settimana a disposizione per poter sentire ciò che in quel secondo stava capitando; ma non si poteva.
Non gli restò che subire grato il diluvio di emozioni che aveva scatenato la musica associata alle parole scritte da van Gogh che fluivano sulle pareti.
Ecco cosa capitò: il "duetto dei fiori", dal Lakmé di Délibes, si librò leggero dagli altoparlanti, si diffuse sornione nella sala, raggiunse intenso come un profumo le loro orecchie.
Lei capì l'intensità con cui era stato colpito, lo fissò negli occhi e gli disse "questo volevo per te".
Lui non oppose resistenza ad una carezza sul viso.
Non oppose resistenza alle voci delle due donne del canto, Mallika e Lakmé, se ne lasciò inebriare.
La schiava Mallika che canta
"Oh mia padrona!
È l’ora nella quale vedo il tuo volto sorridente
L’ora benedetta nella quale posso leggere
Nel cuore sempre chiuso di Lakmé!"
La padrona che le risponde, cantando, che costruiranno un duomo di gelsomino e rose che le richiama a vivere insieme.
La schiava ancora, innamorata della padrona, risponde
"Sotto la cupola fitta di bianco gelsomino
Che alla rosa si stringe
Sulla riva fiorita che ride al mattino
Vieni, discendiamo assieme.
Scivoliamo dolcemente
Lungo i deliziosi flutti
Seguiamo la corrente fuggitiva:
Sull’onda fremente
Con mano noncurante
Vieni, guadagniamo la riva"
Era troppo e sapeva di non poter resistere; così non oppose resistenza alle emozioni, lasciò che la mano di lei lo sfiorasse, forse uscì una lacrima, non sapeva bene se di struggimento, di gioia o chissà cosa, e lì, disteso tra i cuscini con a fianco quella donna così vicina, si lasciò andare alla visione.
E questa volta vide chiaro, e non ebbe paura.
Il re e la regina, il sole e la luna.
Procedevano sulla solea, la pedana rialzata, in mezzo alla chiesa antica; torce alle pareti illuminvano la scena.
Entrambi con mantelli regali; ma la luna sembrava splendere sotto i piedi di lei mentre camminava, il sole sotto quelli di lui.
Si avvicinarono esattamente sotto il centro della cupola della chiesa.
Lui le porse la sinistra; lei rispose e le diede la sinistra, si tennero la mano, sollevata a mezz'aria.
Con la destra presero un fiore, lungo, lo tenevano per lo stelo; incrociarono i due fiori sopra alle sinistre unite.
Dall'alto scese qualcosa di chiaro, forse una colomba e stese un qualcosa di non ben identificato in verticale così che le sinistre, i fiori, e quella specie di bastone formavano tre assi perpendicolari tra loro.
Poi staccarono le mani, posarono i fiori, la colomba sparì.
Posarono entrambi le mani sulla spilla che univa, sotto la gola, i mantelli; stavano per aprire la spilla, liberandosi dei mantelli. Sotto erano nudi.
Si guardarono con uno sguardo sereno di intesa.
Prima di iniziare a togliere i mantelli, lui fece un piccolo gesto.
Aveva qualcosa in mano; nella destra. Qualcosa di molto piccolo grande come una nocciola e glielo porse.
Lei lo prese con la destra; sembrava sorpresa, lo riprese in mano e non lo guardò, chiuse il pugno intorno a quel piccolo oggetto.
Si era appena visto, nel passaggio, che era qualcosa di blu.
Lei lo portò al petto, e chinò il mento, lasciando gli occhi fissi su di lui.
Stette.
Poi alzò la mano, con il palmo aperto e l'oggetto blu in mezzo; era perfettamente simmetrico ed i pensieri di Krueger andarono al Graal.
Poi lei abbasso la mano; ma l'oggetto non si spostò.
Rimase a mezz'aria; cominciò a splendere, ad ingrandirsi, a sollevarsi.
Diventò blu acceso, grande come un piccolo uovo, librandosi all'incirca un metro sopra di loro, diffondendo una luce azzurra.
La cupola si comportò come una immensa conchiglia, riverberando la luce su di loro.
Le tre direzioni del mondo si illuminarono; dall'est all'ovest un raggio percorse la navata sopra la solea, il transetto fu trafitto da nord a sud, dalle profondità della cripta sotterranea con i suoi morti salì un raggio verso il centro della cupola in alto; i tre raggi si incontravano esattamente nell'uovo blu.
Contemporaneamente, in quell'attimo, caddero i mantelli.
Le parole continuavano a fluire nelle pareti, il Lakmè risuonava, Krueger si accorse che la sua visione era durata poche frazioni di secondo.
Riprendendo la ragione pensò al tempo sacro descritto da Mircea Eliade, alla concezione non lineare del tempo negli stati alterati di coscienza.
Erano lì, distesi sui cuscini, una a fianco all'altro.
Lei percepì qualcosa di mutato nel suo sguardo, capendo che non avrebbe capito.
Si strinse un po' più forte al suo braccio.
"Solo per oggi", ripetè, appoggiando il viso sul braccio, strigendolo forte e chiudendo gli occhi, conscia che quello non sarebbe stato il suo futuro.
"Solo per oggi".
[ Cupola della chiesa della Beata Vergine Incoronata, Sabbioneta]
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