pazienza
Non è che sia vietato o che non si possa fare, ma lascia un sapore
strano cadere dentro un'immagine. C'è qualcosa di ancestrale in questo
nostro senso della vista che riesce a solleticare corde profonde.
Nella canzone, bellissima, 'Il funerale' di Branduardi c'è un finale
chiaro:
...ritroverai la collina dei giochi,
là tu deponi il tuo cuore.
La fine della vita come sensazione suprema che riavvicina all'infanzia,
la vecchiaia che chiude il cerchio della vita, che è cerchio. 'La fine
è il mio inizio', bellissimo titolo del libro di Terzano Terzani, in
fin di vita. E quanti altri riferimenti nelle filosofie alla vita che
schiude i suoi misteri nell'infanzia e nella vecchiaia....
Una delle parti che più mi affascina della foto è la profondità, i
piani che si ricorrono e si richiamano; in mezzo al gioco dei piani, in
centro foto, un po' a destra, su sfondo chiaro, c'è una pianta. E' lì
sospesa come un ricordo impreciso, nè vicina nè lontana, corda che
risuona a profondità non collocate; dietro, le altre piante più grandi
e seriose tengono bordone al suo canto: e che cori!, che unisono
potente, che salita verso l'alto, che invenzione nel fondersi verso lo
scuro, in alto, che è piccola invenzione: al posto del chiaro del cielo
c'è lo scuto; è inverno, è profondità,
è un basso profondo, è una vibrazione del ventre...
Ieratica e elegante, questa che definirla pianta è già farla arrossire
(beh, in primavera). Nonostante il freddo, l'inverno, la vecchiaia, la
rigidità, la nebbia, lei è lì e porta la sua testimonianza. Non ha, in
questo momento, speranze di primavera; c'è, vive, si basta. Il
profilo mi si confonde con quello di Norberto Bobbio del 'De
Senectute'; nella sua disperata denuncia dei morsi dell'età la
chiarezza solida che ne staglia la figura sull'indistinta nebbia.
Divisa in due parti simmetriche sembra cercare un giudizio equilibrato,
un criterio di presenza ragionata, una collocazione distinta e
corretta nella foto. Molto piemontese.
Più avanti, la fila di spighe rimaste lì, esuli di un passato raccolto.
Abbandonate all'inverno, lasciate, rimaste, stupite esse stesse: ad
occhi spalancati, un po' spaurite, tutte belle in fila una dietro
l'altra. Si guardano l'un l'altra..., e, a tendere l'orecchio si sente,
scambiano qualche parola
sottovoce, piano.... magari qualcuno s'accorge che sono fuori posto e
le sgrida o
le manda via.
...non sia mai.... è così bello e strano stare qui....vedere il mondo
d'inverno... un privilegio che solo poche, tra le loro simili, hanno
mai avuto.
Si ricordano che, durante la bella stagione, ne avevano sentito
parlare, dell'inverno. Come di un paese sconosciuto: meraviglie e cose
terribili si mescolavano nei racconti delle spighe più grandi, tanto
che ti viene da coprirti gli occhi con le foglie e pensare che mai, mai
potresti resistere in un posto così.
Ma ora, ora, ora.... ringraziano il cielo e la terra per quello che
hanno potuto vedere, da quel giorno in cui si sono accorte che non
sarebbero finite nel Grande Paradiso Meccanico Con Le Grandi Ruote ma
che sarebbero rimaste lì... ancora un po', chissà quanto.
Ricordano che la prima cosa strana fu la luce; il giorno che aveva
smesso di allungarsi.
Prima si pensò ad una malattia del sole, che
presto si sarebbe rimesso e magari avrebbe recuperato il tempo perso.
Poi fu chiaro: nessuna malattia, il sole tramonta prima, il giorno si
accorcia, la vita cambia.
Panico.
Panico panico panico paura paura angoscia oddio oddio oddio e adesso
adesso adesso cosa facciamo? dove andiamo? (da nessuna parte, siamo
piante, razza di cespuglio deficiente).
Straniere, siamo straniere qui, non è il nostro posto, non è la nostra
ora, non siamo fatte per essere qui.
Al posto sbagliato nel momento sbagliato.
E pensare che potremmo essere delle belle pagnotte..... come le
altre....
Non piangevano, perchè erano spighe adulte. Ma erano tristi. E forse
qualche lacrima di nascosto a qualcuna era scappata...
E quel vento, quell'aria, quel sole che cominciava a lavorare di meno.
Sembrava che, passata la festa, il sole si fosse dimenticato di loro:
non le scaldava più come una volta.
Cominciarono le piogge; e lì cominciavano a piangere, tanto non si
vedeva.
Le piante, quelle grandi, quelle vere, parevano tutte impazzite: invece
della bella solita divisa verde s'erano cambiate tutte d'abito.
Poi le piante si spogliarono; loro, le spighe, ci rimasero veramente
male. Uno spettacolo indecente, triste, ma non si vergognano? con
questo freddo poi....
Non era più il loro mondo. Qualcuna si arrabbiò e arrivò a dire parole
irriverenti verso chi le aveva create e maledisse il giorno in cui
germogliò. Parlavano poco, non sapevano che fare. La vita era solo
tristezza, toni di grigio e freddo.
Qualcuna si spezzò, stramazzò al suolo.
Il freddo non sarebbe mai finito; avrebbe continuato all'infinito, e
quello era il senso della vita: o entri nel Grande Paradiso Meccanico
quand'è la tua ora o sei condannata per sempre alla grigia eternità.
Svilupparono un certo senso della fatalità, un po' di cinismo e
ricominciarono a parlarsi. A volte anche a ridere... beh, ridacchiare
per lo meno. Avevano sviluppato una certa resistenza al freddo e alla
stagione, e riuscivano a dolere di meno e osservare di più. Si
formarono molte rughe sui loro steli, ciò che rimaneva delle foglie era
incartapecorito, qualcuna era rimasta con la pannocchia bionda, altre
nera; ed è in questo momento che le ho fotografate; alcune sono chinate
l'una verso l'altra per chiacchierare, e, se guardate bene, in basso,
qualche spiga si tiene per la foglia con la vicina.
Così, perchè in due è meno duro anche essere straniere nell'inverno, e
il solo parlarsi fa sentire meno soli.
Ad un certo punto, prima piano poi più chiaramente, capitò quello che
tutte avevano sognato: i giorni si allungavano! Finalmente! Basta con
le lunghe notti! Si diffuse subito la notizia e se ne parlò parecchio,
si pensò di festeggiare in qualche modo l'evento.
Ma.... un velo sottile increspava il sorriso raggrinzito delle spighe.
Non sarebbe stata più la stessa cosa. L'evento sognato, aspettato,
invocato, spasmodicamente atteso, aveva portato con sè una
consapevolezza profonda, dal gusto forte e amaro. Il loro tempo era
passato; erano state delle privilegiate, avevano visto ciò che poche
spighe al modo possono raccontare.
Con una quiete sconosciuta cominciarono a ricordare quanto visto, che
ora non era solo più grigio e freddo, ma portava ricordi caldi: essere
vicine, parlare, stupirsi di quello che accade. La quiete del ricordo,
la calma che le pervadeva, fu solo superata dall'enfasi del ricordo
della neve. Chi, chi, chi al mondo può raccontare niente di più dolce e
bello? Avevano visto la neve, si erano anche un po' riscaldate lì
sotto, parlottando, occhi spalancati su un modo fatto di contorni
arrotondati e rumori attutiti... una favola...
E questo era bello. Ma era ricordo.
Ora erano stanche, anche di ricordare, ma ciò che più le aveva sfinite
era la consapevolezza di non avere più le forze per germogliare; non
poter godere del calore del sole, che, oggi, non era dedicato a loro.
La festa era finita; abbondatemente.
Non era il loro posto, non era la lora vita. Ma era la loro ora.
Una specie di Grande Paradiso Meccanico arrivò; un po' diverso da
quello dell'estate. Prendeva terra, spighe, piantine, e quanto trovava
per strada e rimescolava tutto, rendendo il campo uniforme e liscio.
Presto le avrebbe prese; avremo una sepoltura, pensarono.Un po' avevano
paura.
Non fu terribile, bastò lasciarsi andare.
Lasciarsi spezzare.
Darsi
alla terra.